La vera cultura

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Dopo aver preso con piacere parte, ieri, alla presentazione del libro dell’amico Guido Tonelli, “la nascita imperfetta delle cose”, volevo quest’oggi condividere con voi alcune riflessioni nate dal confronto sul libro. Via via che scrivevo però, mi sorprendevo del fatto che nulla di nuovo emergeva rispetto a quanto già scrivevo 23 anni orsono!

                  già pubblicato su IL MATTINO, Futuro presente. Venerdì 19 marzo 1993

Nei momenti delle grandi crisi, prima o poi finisce sotto accusa la cultura. Ed è giusto che sia così: quanto più profonda essa è, tanto più una crisi – e a maggior ragione il suo superamento – è un fatto di cultura.

Che oggi stiamo vivendo una crisi di straordinaria portata, è sotto gli occhi di tutti; ed è dunque naturale che sempre più spesso si parli di cultura. E tuttavia sarebbe quanto mai opportuno evitare di parlarne a vanvera, così come talvolta qualcuno fa.

Cominciamo col definire un punto preliminare: con “cultura” si intende la capacità di esplicare con efficacia le potenzialità positive della natura umana. È evidente, allora, che cultura ha a che fare col “sapere”; ma è altrettanto evidente che i due concetti non si identificano, altrimenti parleremmo soltanto di “erudizione”.

Per divenir cultura, il sapere deve impadronirsi di attribuzioni molteplici e forti: saper fare; saper inventare; saper comunicare; saper essere; saper vivere e saper convivere; saper sopportare.

Di tante più di tali attribuzioni, e di altre ancora, il “sapere” si sarà corredato – e in più della capacità di trasmettersi, di “far scuola” – tanto più esso potrà esser detto cultura. E diviene chiaro che cultura così intesa è anche la base del benessere, del progresso, della civile convivenza.

Ma nella società moderna in cui sempre più – per fortuna – i diritti e le conquiste sociali stanno diventando un fatto o almeno un’esigenza di massa, vi è un altro connotato irrinunciabile che questi saperi devono conquistare per definirsi cultura: ed è che essi devono necessariamente divenire patrimonio collettivo.

Non possiamo più permetterci il lusso di chiamare “cultura” ciò che resta circoscritto entro ristrette mura, ed appartiene a pochi: fosse pure il più alto dei raggiungimenti conoscitivi. Tanto più considerando che soprattutto il raggiungimento dei traguardi conoscitivi di eccellenza richiede, da parte della collettività, uno straordinario impegno di risorse intellettuali, organizzative, economiche.

E, dunque, altrettanto e più sforzo dovrà essere dedicato a diffondere i saperi, quanto a generarne di nuovi.

Ma vi è di più. Per cause varie – di cui fra le principali è certamente la spinta a tradurre quanto prima in profitti le nuove conoscenze – nell’ultimo secolo e segnatamente negli ultimi decenni i luoghi di produzione dei saperi si sono tendenzialmente separati in mille specialismi non intercomunicanti, ciascuno dei quali niente o poco ha a che vedere con la cultura.

Nel contempo, la globalizzazione e l’interdipendenza delle condizioni che sottendono lo sviluppo rendono di giorno in giorno più necessaria l’integrazione dei saperi in una sintesi unitaria. Quando si dice che non esistono né possono esistere due culture – una scientifica e una umanistica – si intende dire che ciascuna delle due metà presa da sola (figuriamoci uno solo degli specialismi che si sviluppa nel chiuso di un singolo laboratorio!)non possiede la qualità richiesta per definirsi cultura; qualità che deriva dalla sintesi organica fra le due.

E allora i luoghi del confronto (del confronto fra discipline; fra Paesi e fra civiltà; fra chi produce nuovi saperi e chi vuole utilizzarli; fra futuro e tradizione) non solo i luoghi dello scambio delle conoscenze; divengono luogo di sintesi, e dunque di produzione di cultura.

Quanto a capacità di produrre conoscenze specialistiche, questa città non è più indietro, ma non è certo più avanti, rispetto a quanto si pretende da una grande metropoli di un Paese avanzato, e ricco di tradizioni.

Ma se, nonostante le mille contraddizioni, essa continua ad essere riconosciuta come uno dei pochi luoghi – di questo Paese e forse d’Europa – in cui si produce cultura, ciò segue dal fatto che essa continua a sapersi proporre come bacino di confronto e di sintesi di saperi; un fenomeno alimentato anche dalla voglia di assorbire e fare proprio ciò che di buono è stato prodotto altrove.

E per fortuna questa voglia è un fuoco che viene, e non basta, per spegnerlo, lo sforzo di mille pompieri.

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