
Napoli, 1982
Nella grande sfera che fluttua nello spazio con le sue quattro grandi ali azzurre a forma di croce, vivo solo come un antico guardiano del faro.
Questo grande satellite è parcheggiato su un’orbita geostazionaria. Esso ruota cioè intorno alla Terra con lo stesso periodo di 24 ore con cui la Terra ruota intorno al proprio asse. Cosicché, ruotando insieme ad essa, rimaniamo costantemente situati allo zenit della medesima località terrestre.
Siamo un invisibile puntino alto trentaseimila chilometri al vertice della volta celeste sopra l’isola di Bikini, nell’oceano Pacifico; l’atollo sul quale, circa un secolo fa, è esplosa la prima bomba H sperimentale.
Nei primi tempi, la visione della Terra mi parve straordinaria e bellissima. Sullo sfondo del cielo nero, punteggiato di nitide luminosissime stelle, la grande sfera terrestre si staglia coi suoi colori dalle mille sfumature.
Il suo diametro apparente è oltre trenta volte più grande del diametro apparente del Sole. Abbastanza grande da consentire di individuare chiaramente, laddove il cielo non è coperto di nuvole, il contorno dei continenti e delle isole più grandi; abbastanza da rendere evidente il rilievo delle più alte catene montuose; abbastanza da rendere tridimensionale la visione del nostro pianeta, da farmelo apparire non come un piatto disco nel cielo, ma come una magica sfera in continua evoluzione.
L’impressione che la Terra sia un oggetto vivo è data dai continui mutamenti che vedo svilupparsi su di essa.
Se le fasi della luna, che impiega due settimane per trasformarsi da disco luminoso a disco completamente scuro, sono tanto lente da essere naturalmente classificabili nel novero delle evoluzioni di oggetti inanimati, il galoppare dello spicchio d’ombra sulla Terra via via che nel giro di dodici ore essa passa dalla piena luce alla notte fonda, con la sua avanguardia di ombre lunghe pare essere cavalcata da straordinari esseri vivi alla conquista dei continenti e dei mari. L’evolversi delle formazioni nuvolose – il loro formarsi, gli spostamenti, i vortici, il dissolversi – aggiunge vita e movimento all’immagine della Terra, il cui aspetto è reso ulteriormente vario dalla luce della Luna, che periodicamente trasforma le notti nere di luna nuova negli azzurri scenari della luna piena.
Dopo questi lunghi anni di solitaria vita quassù, questo spettacolo non ha però più per me alcuna bellezza.
Il mio sguardo continua ad essere quasi magneticamente attratto dalla magica sfera di cristallo. Quando, sul terrazzo al decimo piano del mio piccolo appartamento di città, mi accostavo alla ringhiera affacciandomi sulla via, provavo un leggero senso di vertigine. La strada in fondo mi attirava verso di sé, invitandomi al salto nel vuoto; ma ciò si accompagnava a un senso di orrida repulsione.
Lo stesso miscuglio di sensazioni percorre oggi il mio animo quando osservo la Terra da quassù.
Vorrei non guardarla, ma è l’unico polo di interesse nell’immutabile panorama su cui si affacciano le mie finestre.
È sempre giorno, qua. Siamo sempre illuminati dal Sole.
L’orbita del satellite, i dispositivi di correzione dell’assetto, sono stati scelti e progettati in modo che le ali azzurre siano sempre illuminate dal Sole. E ciò d’altra parte è indispensabile perché esse possano svolgere la loro funzione. Ognuna di esse, larga un chilometro e lunga sette, presenta alla luce del Sole la faccia azzurra delle celle fotovoltaiche da cui è costituita.
Ogni cella fotovoltaica è una piccola sottile piastrina di silicio che trasforma in energia elettrica l’energia luminosa che la colpisce. Nel loro insieme, le celle formano quello che viene chiamato il grande campo fotovoltaico.
Già da molti decenni, già dalle prime imprese spaziali dell’uomo, ogni satellite artificiale della Terra è stato dotato di piccoli pannelli costituiti da celle fotovoltaiche, per alimentare di elettricità le apparecchiature di bordo.
Poi, quando si imparò ad andare e venire dallo spazio con le navette spaziali, è divenuta realistica l’impresa di costruire grandi centrali solari orbitanti come questa.
Le ali fotovoltaiche di ciascuna di queste centrali producono tanta energia elettrica quanta ne producono cinque grandi centrali nucleari. Già altri undici satelliti come questo stanno orbitando intorno alla Terra, e molti altri sono in costruzione.
Le apparecchiature contenute al centro della sfera trasformano l’energia elettrica in onde radio di altissima frequenza – in microonde – e le trasmettono a terra.
Anche noi abbiamo il nostro faro, il cui collimato fascio, invisibile ma denso di energia, emesso dalla cavità nel ventre della sfera, investe con precisione la grande antenna circolare disposta a terra. E là, l’energia del fascio di microonde viene nuovamente trasformata in energia elettrica, e immessa negli elettrodotti che la distribuiscono alle industrie e alle case.
Che succederebbe se questo raggio di energia, anziché essere raccolto dall’antenna, andasse a colpire una città?
Se impazzissero i controlli di direzione e di focheggiamento del raggio di energia, esso si trasformerebbe in un raggio di distruzione e di morte. Esso giocherebbe con le città e con gli uomini così come un bambino con una lente può focheggiare i raggi del Sole su un formicaio, sfogando la sua infantile crudeltà dando al rogo la moltitudine di piccoli ignari esseri viventi.
Il funzionamento degli apparecchi di bordo viene controllato da terra. La mia funzione non è quella di gestire questi impianti, ma solo quella di saper vedere quei possibili sintomi di malfunzionamenti e di guasti che siano ancora così incerti da non essere diagnosticati dalle sonde automatiche di controllo.
Io non sono il regista di questo teatro. Sono solo il guardiano notturno, che con la lampada a pila e la pistola nella fondina fa ogni notte il suo inutile solitario giro.
Di questa sfera, non ha senso chiedersi quale sia il pavimento, quali le pareti e quale il soffitto. E ciò non tanto per la simmetria della sua forma geometrica, ma perché qua siamo in condizioni di assenza di peso.
Non è difficile abituarsi a questa situazione, in cui si può fluttuare nell’aria. Se si alza un braccio, esso non ricade poi spontaneamente lungo il fianco; ma resta sollevato senza fatica, fino a quando non gli comandiamo un nuovo movimento.
Mi ha richiesto invece un po’ di allenamento l’abituarmi alle piccole ventose sotto alle scarpe. Senza di esse non si ha alcuna aderenza col terreno, ed è dunque impossibile camminare. Con esse, mi aggiro come un ragno all’interno di questa palla metallica con i suoi multidirezionali oblò; e dipende dal mio arbitrio pensare se in un dato punto mi trovi a testa in giù o a testa in su. Avete mai osservato quei disegni in bianco e nero, pieni di effetti ottici, dove le figure possono apparirvi a piacer vostro concave o convesse?
Per le mie passeggiate lungo le passerelle che precorrono il grande campo fotovoltaico indosso la tuta spaziale. Le prime volte, affacciandomi verso lo spazio provai un doloroso senso di vuoto, una irresistibile vertigine che voleva costringermi a gettarmi nel nulla. Ma uscendo dalla passerella, togliendo qualunque sostegno da sotto i piedi, si continua a fluttuare nel vuoto senza cadere. E così anche la vertigine si stempera in un senso di completa impotenza, nella consapevolezza della propria nullità.
La mia vita è piena di solitudine e di ozio. Vorrei la compagnia di un essere vivo. Ho nostalgia di una mosca, di una zanzara.
Vorrei poter non più guardare la Terra. La sua visione è l’unico movimento che polarizza la mia attenzione, e mi riempie di angoscia.
Ma dovunque mi porti, c’è sempre uno spiraglio attraverso il quale la sua immagine mi colpisce a dispetto della mia volontà.
Da bambino, assieme al mio gemello formavo una coppia di pestiferi soggetti. Una sera, come spesso accadeva, i miei genitori uscendo ci affidarono alla vecchia governante. Come sempre, essa doveva arrabattarsi e innervosirsi fino a fare i capelli ricci prima di riuscire a metterci a letto chiamando il sonno a liberarla da noi.
Erano appena state rincalzate le coperte, quando venne meno la luce. La vecchia, tremando di paura, andò cercando nel buio la candela; e finalmente riuscì a riportare nella stanza la debole luce che proiettava sui muri ombre tremolanti.
Fu forse la paura a costringerla, a quel punto, a una frettolosa fuga al gabinetto.
Noi, piccoli delinquenti, approfittammo subito della eccezionale situazione. Usammo la candela per appiccare il fuoco alle tende della finestra.
− Al fuoco! Al fuoco! − cominciammo a urlare.
La poveretta ricomparve stravolta dentro la sfera debole di luce, con l’espressione resa più drammatica e terribile dai mobili contrasti di luci ed ombre proiettati sul suo volto dalla luce rossa delle fiamme.
Urlando e inciampando, riuscì tuttavia a procurarsi un secchio d’acqua e a spegnere l’incendio.
Quando in quel punto ritornò la luce, evidenziò le pietose condizioni in cui eravamo riusciti a gettare una stanza in due soli minuti di incontrollata libertà.
− Mai più al gabinetto− piangeva la vecchia.
Così ora la mia mente urla dentro di me.
− Mai più guardare la Terra−
Ma è un inutile proclama. Così come il proposito della governante pretendeva di andare contro le leggi di natura, così il mio incontenibile desiderio di cambiare quadro cozza contro le caratteristiche non mutabili di questo piccolo universo.
Ho trovato un insperato rifugio nella stanza al centro della sfera. E’ la sala di controllo della grande centrale.
Ho trovato uno straordinario interesse verso la logica delle sue sofisticate attrezzature.
Sto lavorando a un esercizio che riesce a polarizzare la mia attenzione, a impegnare la mia intelligenza fino alle sue più riposte risorse. Una sfida non solo nei riguardi della complessa macchina, ma anche degli uomini che di laggiù, dalla terra, ne controllano il funzionamento.
Sto costruendomi la capacità di controllare, indipendentemente da loro, l’orientamento del raggio di energia che emana da noi. Voglio diventare capace di orientarlo dove voglio.
Quando avrò conquistato questa capacità, non la userò mai. Ma mi basterà la consapevolezza della mia potenza, la consapevolezza di poter annientare a mio piacimento le città su cui avrò voglia di indirizzare il mio raggio di morte, ad appagare il mio io, e darmi la pace interiore che cerco.
Ho comunicato a terra l’esistenza di un guasto immaginario. Ho allargato il fascio di energia fino a diluirne l’intensità a livelli non pericolosi; e ho così potuti verificare, senza provocare alcun danno e senza che nessuno avesse il minimo sospetto, la mia effettiva capacità di controllare il raggio di morte.
Sono, non v’è dubbio, il più potente fra gli uomini. Nessuno di loro, laggiù, può utilizzare questo strumento a suo piacimento. Ognuno di loro è sottoposto a un complicato incastro di incrociati controlli decisionali. Io solo, senza rendere conto ad altri che alla mia coscienza, sono arbitro della vita di milioni di uomini.
A volte, come una vertigine, mi assale un incontrollabile desiderio di esercitare il mio potere. Mi lego le mani, e violento la mia volontà.
Il mio esilio, quassù, durerà ancora un anno intero.
Saprò arrivare fino a quella scadenza senza mai mettermi nei panni di un terribile Dio Sterminatore?
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