Un auspicio per Bagnoli

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Un auspicio per Bagnoli

Ancora una volta, come a più riprese è accaduto negli ultimi venti anni, si è riacceso in questi giorni il dibattito su quale debba essere il futuro di Bagnoli. Un dibattito che vede coinvolte in prima linea – come è doveroso che sia – le Istituzioni cui spettano le decisioni strategiche sull’assetto territoriale e produttivo della nostra città, del Mezzogiorno e dell’intero Paese.

Un processo senza fine che segue un rituale ricorrente come quello della mitica tela di Penelope. Si parte dalla ovvia constatazione che niente è stato concretamente fatto negli ultimi lustri, con la enunciazione del principio che il Paese non può permettersi il lusso di non utilizzare questa importante, strategica risorsa rappresentata dalla piana di Bagnoli. Segue la allocazione di una prima rilevante posta finanziaria (sempre la stessa, 50 milioni di euro; le risorse già più volte impegnate – e mai utilizzate – per la prossima fase della bonifica ambientale). L’imperativo di accelerare al massimo l’avvio  della fase operativa, diviene a quel punto argomento per semplificare al massimo l’obiettivo concettuale dell’intervento limitandolo alla bonifica del suolo senza alcuna attenzione agli aspetti imprenditoriali e produttivi.

A riprova della sterilità di questo approccio, ritiro fuori dal cassetto un articolo da me scritto il 27 agosto 1993. Un articolo che mantiene a tutt’oggi una attualità scoraggiante. Scoraggiante quanto doveva essere per Penelope il constatare la sterilità del suo inutile lavoro.

La novità di questi giorni sta nel fatto che, finalmente, pare che le Istituzioni si apprestino a trovare un momento costruttivo di organico confronto: premessa necessaria – anche se non sufficiente – perché il nome di Bagnoli cessi di significare un problema per andare ad indicare una grande opportunità.

Una vita a doppio senso – già pubblicato su IL MATTINO, Futuro e presente. Venerdì 27 agosto 1993

Chi non ha sognato, almeno una volta, di vivere in un mondo in cui tutte le strade siano in discesa? Qualcuno si arrende di fronte alla ferrea considerazione che se una strada, per chi va in un senso è in discesa, quella stessa strada è in salita per chi va in senso opposto. Ma non è detto che tutte le strade siano a doppio senso…

Immaginate che in ogni città ci sia una torre altissima, con in cima una larghissima piazza; e che da questa piazza si dipartano tutte le strade che escono dalla città. Immaginate che in ogni città ci sia anche un largo e profondissimo pozzo, con in fondo una spaziosissima piazza, in cui convergono tutte le strade che entrano in città. Partendo dalla torre di una città si può arrivare, andando sempre in discesa, al pozzo di ogni altra città, e viceversa. Questa sorta di miracoloso paese avevo progettato da bambino. Mi era balenato il problema di chi e come, poi, sollevasse le macchine e le persone, di ogni città, dal pozzo fino alla cima della torre; ma questo lo giudicavo un problema di dettaglio…

Lasciando da parte i sogni dell’infanzia, la dura realtà resta che, ogni qualvolta si compie un tratto di strada in discesa, si ipoteca un pezzetto di futuro: noi stessi o qualcun altro, quello stesso tratto dovremo poi compierlo in salita; e ciò costerà duro lavoro, sia che a svilupparlo siano i muscoli, o un motore.

Capitano dei periodi in cui un intero paese si illude che la sua economia sia fatta di strade tutte in discesa; che basti comprare e vendere, scambiare questo con quello, perché l’economia sia florida e vitale. In realtà, in ogni scambio, se uno ci guadagna, un altro ci rimette; proprio come le strade, se per uno sono discese, per l’altro sono salite.

Per qualche tempo, per qualche ragione, può anche capitare che tutti gli scambi si chiudano in vantaggio. Ma quando ciò accade due sono i casi: o si stanno vendendo delle provviste che qualcuno – forse Madre Natura – ci ha regalato dopo averle a lungo conservate; oppure si sta ingannando e sfruttando qualcun altro. Nell’un caso e nell’altro, stiamo ipotecando il futuro nostro e dei nostri discendenti, e qualcuno prima o poi ci presenterà il conto.

Proprio come per muoversi è necessario un motore, naturale o artificiale, che compie lavoro, così una comunità umana non può essere a lungo prospera senza che al suo interno funzioni, da qualche parte, quel motore detto produzione. L’illusione, che per qualche tempo è andata di moda, di una civiltà “post-industriale” (per quanto ci riguarda più da vicino, di un Mezzogiorno post-industriale), l’illusione di un paese senza produzione di beni materiali, assomiglia all’illusione di un paese in cui tutte le strade vanno in discesa.

Recuperiamo dunque con forza, per quanto ci riguarda, la vocazione produttiva della nostra regione. Ciò non toglie, naturalmente, che l’industrializzazione alla vecchia maniera non debba essere criticata, e profondamente rivista. Non possiamo volere, né tollerare, grandi industrie che abbiano altrove il cervello, e qui solo un corpo vecchio e ingombrante, irrispettoso dell’ambiente (cosa che avviene sempre più frequentemente, oggi, ai danni dei paesi in via di sviluppo in cui, secondo i piani della grande impresa capitalistica “globale”, dovevano concentrarsi tutte le produzioni sporche). Non possiamo parimenti volere industrie produttrici di accessori e superflui beni di consumo, in un momento in cui tutta la nostra civiltà, nel suo insieme, sarà sempre più chiamata a un ridimensionamento severo dei consumi inutili. Ci serve – al contrario – un tessuto produttivo diffuso, radicato nelle abilità tradizionali, rispettoso della cultura e dell’ambiente. Un tessuto produttivo motivato più da criteri di conservazione e d’uso, che non di consumo tout-court. Ma, se questo è quello che ci serve, non possiamo aspettarci che ci venga regalato, che sia qualcun altro a progettarlo, che ci discenda miracolosamente dall’alto. Dobbiamo, allora, rimboccarci le maniche e costruirlo noi stessi. Da chi ci governa e ci amministra dobbiamo solo pretendere – questo sì, con forza – che vengano costruite e garantite quelle condizioni che consentano, anche qui, di lavorare con tranquillità; di vivere, se non altro, con un minimo di sicurezza e di fiducia nel futuro.

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