
Dicembre 1982
L’idea balenò per la prima volta alla mia mente quando, al luna park, ebbi modo di veder lavorare un’indovina.
Io non credo alla capacità di chicchessia di prevedere il futuro. Eppure, non v’è dubbio che l’indovina faccia ricorso ad effetti che sono in un certo senso extrasensoriali, pur essendo indubbiamente reali.
Con l’aiuto della sua sfera di cristallo ella riesce a creare intorno a sé una atmosfera di illusione in cui gli astanti vengono inconsciamente immersi in misura che trascende almeno parzialmente la loro capacità di autocontrollo; una atmosfera che certamente ella non sarebbe capace di creare qualora non disponesse di quel magico strumento. Si può dire che la sfera, pur nella sua semplicità, sia nell’esercizio delle sue funzioni un indispensabile accessorio della sua personalità, che viene amplificata e ingigantita.
Se allora un oggetto così banale, una semplice inerte palla di vetro, può portare un contributo così importante all’arricchimento delle facoltà psico-fisiche di un individuo, non si potrà, usando come accessorio del corpo quanto di meglio può essere realizzato facendo ricorso alle più moderne tecnologie, trasformare un uomo in superuomo?
La miniaturizzazione, in elettronica, ha fatto negli ultimi anni passi da gigante. Un calcolatore elettronico può avere oggi le dimensioni di una noce: un microcomputer, viene chiamato. Ma un oggetto di dimensioni leggermente superiori, dal peso di un paio di etti, può racchiudere in sé la stessa capacità di elaborazione che quindici anni fa era accessibile solo alle più grandi cosiddette “macchine pensanti”.
A dispetto di questo nome, un computer, evidentemente, non pensa. Tuttavia si può dire che le sue capacità siano, in certa misura, complementari a quelle del cervello. Il computer non ha capacità proprie di sintesi, né tanto meno capacità di invenzione, di induzione. Tuttavia la sua enorme capacità di elaborazione può essere di formidabile aiuto alle analisi che il cervello compie, come premessa alle sintesi, alle estrapolazioni, alle previsioni, alle decisioni.
Il problema dunque è: è possibile organizzare una simbiosi permanente fra cervello e computer? E’ possibile mettere in comunicazione fra di loro questi due gioielli dell’informatica, quello naturale e quello artificiale? Fare in modo che il computer assista continuamente il cervello nel processo di allestimento delle decisioni?
Se si riuscirà a raggiungere questo obiettivo senza dubbio si sarà realizzato il superuomo.
Un problema, non v’è che dire, affascinante.
All’inizio della sua storia evolutiva il computer accettava e comprendeva solo messaggi redatti nella sua ermetica lingua, in quello che si chiama il suo “linguaggio base” o anche il suo “linguaggio macchina”. Sulla base delle istruzioni ricevute, esso lavorava mettendo tutte le sue capacità al servizio della elaborazione delle risposte alle questioni postegli; e le sue risposte erano redatte infine anch’esse nel medesimo cifrato linguaggio. Toccava all’uomo, dunque- al programmatore- fungere da traduttore; codificare le domande nel linguaggio macchina, e decodificare le risposte trasformandole in forma adatta alla nostra capacità di comprensione.
Con l’evoluzione dell’informatica, però, il calcolatore è diventato poliglotta. I suoi terminali capiscono la nostra lingua; e la macchina stessa la traduce nel linguaggio in cui il suo cervello e la sua memoria sono abituati a lavorare. I codici di traduzione- il lessico e la sintesi delle varie lingue, i dizionari detti “compilatori”- sono stati insegnati al calcolatore una volta per tutte.
Non solo. La macchina è stata resa via via sensibile a categorie sempre più vaste di stimoli: è stata dotata, per così dire, di un numero crescente di “sensi”. Agli inizi essa non udiva e non vedeva; era sensibile solo a particolari sollecitazioni elettromeccaniche cosiddette “digitali”; reagiva solo alla manipolazione degli interruttori della sua console.
Ora, essa vede con l’obiettivo delle sue telecamere e ascolta con i suoi microfoni; sente le sollecitazioni elettriche inviate ai suoi trasduttori, interpreta i cosiddetti segnali “analogici”. Sa leggere i libri, nastri magnetici e dischi.
Le sue risposte possono essere emesse dagli organi di comunicazione più vari: può scriverle, può mostrarle sul monitor; può disegnarle; può parlare cantare e suonare; può muovere i suoi organi meccanici, le sue “gambe” e le sue “braccia”.
Ora, evidentemente, per mettere il computer al servizio diretto del cervello, per metterlo in comunicazione permanente con esso, è necessario fornirgli un senso in più. Dotarlo del “sesto senso”; insegnargli cioè a leggere direttamente nel pensiero, e a comunicare nuovamente al cervello nel linguaggio proprio di quest’ultimo, a trasmettere il pensiero.
E’ possibile tutto ciò? Ho deciso di tentare, credo valga la pena.
I mio mestiere è l’informatica. So tutto sui computers, sui loro circuiti e sul loro linguaggio. Non hanno per me alcun segreto.
Ma, ahimè, la cultura moderna è fatta a compartimenti stagni. Fino a ieri, non avevo la più pallida idea sul funzionamento del cervello.
Ho trovato interi tomi, trattati ed enciclopedie.
Negli ultimi dieci anni sono stati fatti passi da gigante. La mappa del cervello, la localizzazione fisica delle sue varie funzioni, è ormai completamente nota. Una dettagliata carta topografica: qua le attività motorie, la memoria, i sensi; commozione, affetti, logica.
Anche i suoi codici sono stati individuati, riprodotti e interpretati. Sequenze di segnali elettrochimici che percorrono il sistema nervoso trasportando l’informazione. Una specie di alfabeto Morse il cui cifrario interpretativo, apparentemente complesso, è in realtà straordinariamente semplice e univoco.
Quale meraviglioso progettista è la natura.
L’elaborazione del programma di traduzione, del compilatore capace di abilitare il calcolatore a comprendere l’alfabeto del cervello, il suo linguaggio, è un lavoro lungo e complesso, ma non difficile concettualmente.
Ho a mia disposizione tanto tempo quanto voglio. Porterò al termine l’opera con calma, un poco ogni sera. Non è questo che mi preoccupa. Mi farò aiutare da Clara.
Più difficile sarà lo sviluppo dei trasduttori capaci di fare comunicare il calcolatore con il cervello, e lo sviluppo delle “antenne” di cui dotare la macchina per renderla capace di captare i segnali del pensiero che percorrono il sistema nervoso.
Procederò per gradi. Cercherò prima di sviluppare i trasduttori che consentiranno al computer di parlare al cervello; solo in seguito vedrò come fargli “ascoltare” il pensiero. Una cosa alla volta.
Sono soddisfatto del mio lavoro. Ho alloggiato un piccolo ma potente calcolatore all’interno di una cilindrica scatola metallica. Con quell’oggetto in testa mi sembra di assomigliare a un buffo personaggio da cabaret. Ho deciso di giocare su quest’effetto, e ho mascherato il contenitore del computer infilando dentro un vecchio cappello a cilindro.
Il compilatore è ormai finito e funzionante. Per lunghe settimane, con l’aiuto di Clara, ho controllato il suo funzionamento collegando il calcolatore a un video-terminale, a un normale monitor. Il calcolatore è ora in grado di capire l’alfabeto del cervello; esegue correttamente gli ordini che gli vengono impartiti con l’elaborato cifrario proprio degli impulsi cerebrali, e risponde usando lo stesso cifrario.
Ho sistemato, internamente al cilindro, una piccola antenna direzionale collegata con l’uscita del calcolatore. Le risposte che esso elabora vengono trasmesse, attraverso la piccola antenna, col codice delle onde celebrali.
Ho fatto giorni e giorni di prove. Ho programmato il calcolatore a trasmettere regolarmente, ogni quindici secondi, un codice fisso.
Mettendomi il cilindro in testa, dovrei captare il suo regolare messaggio.
“Wille zur macht”. Volontà di potenza.
La parola d’ordine che ho scelto, il proclama del superuomo di Nietzsche, mi ronza continuamente nel cervello. Ma che cosa ha a che vedere questo ritornello con il messaggio del calcolatore?
Che lui mi parli è sicuro. Ma io, sto ascoltando lui o soltanto le mie divagazioni?
L’unico modo per verificare la mia capacità di intenderlo è quello di fargli trasmettere un messaggio che io già non conosca.
Ho chiesto a Clara di programmarlo su un codice noto a lei sola.
Mi sono messo il magico cappello, e ho deciso di ripetere ad alta voce i pensieri che mi vengono in mente.
“La vispa Teresa avea fra l’erbetta…”
Ho guardato Clara. Il brillare dei suoi occhi mi ha aperto il cuore.
“Clara ti adora”.
Mi ha buttato le braccia al collo, mi ha stretto forte ridendo.
Stavo ripetendo le parole del messaggio chiave che il calcolatore stava ripetendo al mio cervello secondo le sue istruzioni.
Stiamo ben oltre la metà dell’impresa. Il computer sa parlare al mio cervello; ora gli insegnerò ad ascoltarlo. Fra non molto sarò un superuomo.
Avevo sottovalutato l’ultimo pezzo del rompicapo, l’ultimo tempo del mio gioco.
Non è stata tanto la difficoltà di costruire l’”orecchio” del calcolatore, cioè quel trasduttore capace di captare, a contatto con la scatola cranica, i debolissimi segnali elettromagnetici che accompagnano il lavorio del cervello, e di amplificarli fino al punto di renderli percettibili ai micologici del computer. Più difficile è stato il problema di separare questi segnali dai disturbi sempre presenti, dai cosiddetti “rumori di fondo”.
Mi ha aiutato in questo la conoscenza delle frequenze caratteristiche su cui lavora il cervello; ed in più mi ha aiutato il raffreddare i circuiti di amplificazione fino alla temperatura di meno venti gradi ottenuta riempiendo il cilindro di ghiaccio secco. Né mi preoccupa l’aspetto ancor più eccentrico che ha assunto il mio cappello, col suo sportellino in cima e con lo sfiatatoio da cui fumano i bianchi vapori di condensazione che accompagnano la sublimazione del ghiaccio secco.
E’ un effetto, questo, che dà al tutto un aspetto che non guasta affatto, un aspetto misterioso e sinistro: non a caso il ghiaccio secco viene usato normalmente in teatro per creare quegli effetti speciali che danno magica apparenza all’ebollizione dei pentoloni in cui le streghe preparano i loro incantati intrugli.
Ma il più difficile nodo da sciogliere è stato quello di insegnare al mio cervello a farsi intendere dall’antenna, a parlare dentro l’orecchio del computer. Il problema è cioè quello di localizzare la domanda che intendo rivolgere al computer proprio in quel punto del cervello in cui l’orecchio del computer è in ascolto. Un problema simile, penso- anche se infinitamente più complesso- a quello che deve risolvere che avendo avuta amputata una gamba deve imparare a manovrare un arto artificiale muovendo i muscoli del moncherino.
Ho continuato a chiedere al mio cervello il risultato del prodotto:
34672 X 9113… 34672 X 9113… 34672 X 9113…
L’ho chiesto al passato; l’ho chiesto al futuro; l’ho chiesto con ira; con gioia, con rabbia, con amore… fra quale dei miei sentimenti è in ascolto il computer?
Finalmente, in un angolo di rabbia verso il mio alluce destro, ho inteso la timida risposta:
34672 X 9113= 315965936
Non vi può essere dubbio, la risposta è uscita dal cappello, dalla magica tecnologica propaggine del mio cervello.
La gioia e l’emozione per il successo è stata seguita da giorni di delusione, accorgendomi di non essere più capace, dopo il primo contatto, di ritrovare il colloquio con il computer. Tuttavia ora sapevo che il successo era alle porte, che era ormai solo questione di paziente allenamento.
E piano piano infatti, come un bimbo che balbetta per mesi poche semplici sillabe e finalmente d’un tratto in pochi giorni impara a fare concioni e sfoga in lunghi discorsi questa sua nuova facoltà, così dopo settimane di pena la mia capacità di usare il mio cervello supplementare è maturata all’improvviso.
Non v’è più problema abbastanza complesso per me; non v’è equazione abbastanza difficile. Dalla fumante appendice della mia testa, che ormai funziona in perfetto accordo e simbiosi con il mio cervello, esce l’esatta risposta.
Sono un grand’uomo. “Homo Computer”.
In pochi mesi sono diventato una celebrità, non v’è dubbio. Le mie capacità di calcolo sono veramente strepitose. Dopo le mie prime esibizioni occasionali, quasi distratte, la mia fama si è sparsa rapidamente. Dapprima nei salotti, e poi nelle aule delle università. Ora si è svegliata la televisione; sono maturo per gli spettacoli di varietà.
La mia aria stravagante, il mio cappello fumante, ben si inquadrano con la scenografia generale: la stravaganza ben si addice al personaggio. Come noto, fra genio e pazzia i confini sono incerti.
Ma quale soddisfazione ci può essere a esibirsi nei salotti come un fenomeno vivente, nell’essere esposti alla pubblica meraviglia come la donna cannone al luna park?
Sto scoprendo a mie spese la differenza fra Leonardo e Pico della Mirandola. Il computer mi dà memoria, mi dà capacità di calcolo; ma chi mi darà fantasia, intuizione, inventiva?
Ahimè, il genio è un’altra cosa. Non mi sento un super uomo. Sono ben povera cosa, sono ben meschino, se nemmeno coi miei trucchi tecnologici riesco a confrontarmi alla pari coi grandi, e nemmeno forse con un onesto buon lavoratore della scienza, con un cosiddetto “luminare” nostrano.
Sono triste, sfiduciato, distrutto. Potrò forse diventare ricco. Ma chi mi darà rispetto per me stesso? Prima mi stimavo un grand’uomo; sognavo una brillante carriera scientifica ed accademica. Questa esperienza mi ha tolto ogni illusione.
Riacquisto stima di me; forse ho avuto un buon colpo di genio.
Se un computer non è in grado di cambiare un cervello fino al punto di fargli fare quel salto di qualità che speravo, forse potrò fare un buon colpo unendo fra di loro due cervelli.
Al punto in cui sono non è complicato.
Basta un altro cappello fumante. Per due computers non è difficile comunicare fra loro via radio; saranno essi a fare da tramite fra i due cervelli. Io e Clara. Dice l’adagio “due anime in un nocciolo”; noi saremo un sol cervello in due corpi.
Ho collaudato la macchina gemella.
Clara lavora di buona lena, e rapidamente il suo cervello sta acquistando il controllo del suo computer.
Via via che Clara impara a gestire il suo computer, via via che il computer entra in simbiosi con il suo cervello, io vedo squarci dei suoi pensieri, io ricevo attraverso il mio cappello il panorama della sua mente.
Che succede, mia dolce Clara?
Mi aspettavo innocenza, lealtà, chiarezza.
Leggo barlumi di invidia, di calcolo.
Scivola il tempo in tempo il tuo pensiero verso pozzanghere di povertà.
Sapevo di me; mi conoscevo, sotto la corazza delle apparenze, debolezze meschine. Le nascondevo anche a me stesso, volevo considerarli accidenti spuri della mia personalità; non volevo che fossero caratteristiche generali dell’uomo.
Ma se anche in te le ritrovo, piccola Clara, chi ne sarà libero?
Meglio distruggere le mie macchine, i passepartout delle coscienze.
Che ognuno conosca fino in fondo solo se stesso, e possa sperare che gli altri siano migliori di sé.
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