
Pubblicato su “Rinascita”, numero 36 del 19 settembre 1987
Una parte del mondo della scienza – quella parte che si preoccupa di difendere i propri specialismi, protetta dalla cortina di un gergo incomprensibile ai più – è portata a considerare la fantascienza come una sorta di eresia: attitudine motivata, almeno in parte, dalla tendenza a classificare in questo genere letterario qualunque favola, purché ambientata nel futuro e condita con più o meno credibili estrapolazioni tecnologiche.
Ma la buona fantascienza non è pura invenzione, né pura fantasia; essa è spesso, piuttosto, un artificio per esplorare in anticipo le vie future della storia, per indagare a quale meta porti ciascuno dei sentieri che si ramifica di fronte ad ogni scelta di civiltà, e dei quali uno solo sarà percorso dalla realtà dei fatti. Se così intesa, la fantascienza ha molti punti di contatto con la scienza; ne diviene una ancella e un complemento. Ed ha, come la scienza, precisi vincoli di rigore e di coerenza.
In un buon racconto di fantascienza – come in un teorema di matematica – la libertà si limita alla scelta delle ipotesi. Che tuttavia libere fino in fondo non possono essere nemmeno esse, sottoposte come sono alla condizione di compatibilità interna; e se non di “Verità”, per lo meno di “possibilità” scientifica. Dalle ipotesi alla conclusione, il ragionamento procederà poi sostenuto dallo stesso rigore logico proprio di una teoria scientifica. Ma ciò non basta. Così come un teorema di matematica – dei quali può essere prodotta una infinita varietà – resta inutile se non rappresenta il modello di una situazione appartenente al reale, così un racconto di fantascienza perde ogni interesse se le sue ipotesi di partenza non appartengono al ventaglio delle situazioni che la società e la scienza vanno via via producendo.
E allora, così come il metodo sperimentale pretende che una teoria scientifica sia sottoposta alla verifica dei fatti, allo stesso modo un racconto di fantascienza è sottoposto alla verifica della storia. Basti citare al riguardo il caso delle “fantascientifiche” invenzioni di Jules Verne. Come una teoria scientifica, così una teoria fantascientifica vive il suo massimo splendore proprio nel lasso di tempo che passa fra la sua enunciazione come ipotesi, e il suo confronto coi fatti. E se questo confronto è positivo, essa viene accolta nella cultura consolidata; se ne è smentita, passa fra le cose da dimenticare. Se ai tempi di Jules Verne il ritmo di sviluppo della civiltà rendeva tale lasso confrontabile col tempo di vita di un uomo, oggi i tempi si accorciano, e la realtà si accavalla con la fantasia. La consacrazione o la smentita di un’ipotesi fantascientifica matura a volte nel breve intervallo che passa fra il suo concepimento e la sua pubblicazione; e nei casi sfortunati, in luogo di una nascita si registra un aborto. Per questo, oggi più di ieri, lo scrittore di fantascienza non può prescindere dalle conoscenze e dai metodi della scienza.
Ma questo non è il punto di arrivo, bensì il punto dì partenza del mio ragionamento. Proseguendo dunque la nostra analisi, osserviamo che se la dimestichezza con la scienza è uno dei requisiti, allora sarà normale cercare e trovare buoni scrittori di fantascienza fra gli scienziati stessi. Ciò è tanto più vero considerando che la formulazione di una ipotesi scientifica richiede spesso lo stesso sforzo di fantasia che serve per inventare un’ipotesi di fantascienza. E allora, un esercizio di fantascienza può essere funzionale allo stesso mestiere di scienziato.
Non vi è dubbio ad esempio che Carlo Rubbia, quando avanza la sua proposta di confinamento inerziale per la fusione nucleare, abbia proficuamente rotto le paratie che troppo spesso separano la scienza dalla fantasia. E chi abbia avuto l’opportunità di ragionare con Engelberger, padre della moderna robotica, a proposito delle sue idee e dei suoi progetti, non può sfuggire all’impressione che nel momento del concepimento dei suoi artificiali figli la sua mente sia stata fecondata dalle leggi della robotica di Asimov. Ancora, leggendo Nuvola Nera, fortunato romanzo dell’astronomo e astrofisico Fred Hoyle, non si ha dubbio che mentre scriveva lo scienziato avesse lasciato posto fino in fondo al romanziere; eppure, la successiva produzione scientifica di Hoyle appare in straordinaria sintonia con l ‘ipotesi della Nuvola Nera.
E llya Prigogine quando oggi applica le sue equazioni di termodinamica a un’ipotesi di evoluzione dell’universo si muove sulla linea tracciata nella Nuova Alleanza, in cui raccoglie scritti a cavallo fra scienza e fantasia a proposito dell’uso delle stesse equazioni per trattare l’evoluzione dei sistemi complessi costituiti da individui vivi.
In effetti, quando un uomo di scienza trova il coraggio di tradurre in racconto la sua attitudine fantastica, realizza non solo una efficace palestra di allenamento per la sua attività scientifica. Ma uscendo dallo specialismo, e confrontandosi con la società e con il pubblico, è stimolato anche alla diffusione delle sue stesse conoscenze scientifiche: un preciso dovere della scienza, questo, che salvo poche eccezioni gli scienziati tendono spesso a trascurare.
Con ciò, abbiamo individuato per l’incontro fra scienza e fantascienza una motivazione che trascende le necessità interne a queste due discipline, e si trasforma in esigenza sociale. Ma su questo terreno, la proiezione immaginaria del progresso scientifico trova una motivazione assai più profonda. Essa appare infatti come uno degli stimoli a riappropriarci, come civiltà tecnologica, della capacità di progettare il nostro futuro. Affermazione, questa, che presuppone che tale capacità noi l’abbiamo, oggi, almeno in parte persa. Che sia così appare evidente osservando, nella storia dell’ultimo cinquantennio, come lo sviluppo di una idea scientifica, le conseguenze applicative e tecnologiche di tale idea, e le implicazioni di civiltà connesse con le applicazioni, appaiano da un lato fra di loro connesse da una meccanica catena dì causa-effetto; e dall’altro separate da un percorso decisionale nascosto, che toglie di fatto dal controllo di chi decide le cause, ogni reale capacità di valutazione degli effetti.
E tanto più annulla la possibilità di un controllo consapevole e democratico delle grandi scelte di civiltà. Esemplificativa, al riguardo, è la vicenda della tecnologia nucleare. La decisione di avviare il “progetto Manhattan”, nominalmente finalizzato a verificare la fattibilità della bomba atomica, conteneva in realtà in sé la decisione delle ecatombi di Hiroshima e Nagasaki; conteneva l’avvio della corsa agli armamenti nucleari; rappresentava il punto di non ritorno per una scelta che segna profondamente l’attuale civiltà, ne determina in larga misura i valori, ne condiziona pesantemente l’assetto politico e filosofico, ne mette in forse lo stesso futuro. Quella decisione è stata presa senza che, nel mondo della scienza, si avesse una benché pallida idea della sua reale portata. La stessa situazione si presenta oggi di fronte a scelte altrettanto cruciali: il progetto reaganiano di guerre stellari, che contiene in sé la logica conseguenza dì demandare al computer la decisione sull’uso di armi capaci di distruggere il mondo; o taluni progetti di ingegneria genetica, che implicano la tentazione, per i potenti della terra, di progettare una umanità a misura dei propri desideri.
Si obietta, di fronte a questi allarmi, che lo sviluppo della conoscenza è parte della natura dell’uomo; che a tale sviluppo l’uomo non può rinunciare; e che dunque fa parte dei processi naturali anche l’accettare con filosofia le conseguenze della ineluttabile crescita delle conoscenze. Ma ci si dimentica che molti sviluppi cosiddetti scientifici mirano ad accrescere non già la nostra conoscenza della natura, ma la nostra volontà di controllarla e stravolgerla; e a ciò non ci spinge alcun imperativo della nostra natura di uomini.
Se ciò è vero, se è vero che insieme alla capacità di stravolgere il futuro la nostra civiltà non ha acquisito la capacità di progettarlo, e se è vero che non si può arrivare a ciò senza prevedere o per lo meno immaginare le conseguenze delle nostre scelte, allora per gli scienziati l’immaginazione del futuro non è più un gioco, ma un vero e proprio dovere. Richiamare la scienza a questo dovere – un richiamo che rischia dì suonare insieme un invito alla fatuità e una accusa di leggerezza; e che grazie a questa ambiguità può essere rintuzzato anche senza dare alcuna risposta- non è impresa facile, né priva di rischi.
Con l’occasione dell’annuale congresso della Società italiana di fisica, che si terrà a Napoli intorno alla metà di ottobre, abbiamo tentato un esperimento, organizzando una grande manifestazione fatta di mostre, spettacoli, concerti, documenti, conferenze, ironie, cui abbiamo dato il nome di “Futuro Remoto: un viaggio fra scienza e fantascienza”. Una manifestazione in cui la scienza è chiamata a presentarsi al largo pubblico con lo scopo di insegnare divertendo. Ma nello stesso tempo a fare un atto di umiltà mostrandosi pubblicamente insieme alla fantascienza, per raccontare a tutti quale futuro immagini per sé stessa e per tutti noi.
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