
LA BOCCA DI PRUA (Novembre 1982)
Da ragazzo spesi i soldi di una borsa di studio, anziché per comprar libri, per comprare una motocicletta: una bellissima motocicletta carenata color argento con finiture nere.
Mi piaceva correre forte. Vicino alla città, c’era un circuito veloce dove ci ritrovavamo ogni sera fra ragazzi fanatici come me.
Mia madre tremava dalla paura, diceva che mi sarei ammazzato. Ma al di là delle apparenze, a dispetto del mio amore per la velocità, ero estremamente prudente: non mi spingevo mai in vicinanza dei confini oltre i quali il mezzo meccanico poteva prendere il sopravvento sulla mia capacità di controllo.
Ricordo ancora l’ultima volta che mi feci male e non fu certo a causa della velocità. Mi stavo fermando; la motocicletta, in folle, aveva ormai perso tutta la sua velocità- era praticamente ferma- ed io feci per mettere il piede a terra. Fu allora che mi accorsi che la gamba dei blue-jeans si era impigliata nella leva della messa in moto. Quei pochi istanti- la motocicletta che si fermava completamente, vacillava a dispetto del mio assurdo tentativo di mantenerla in piedi anche da ferma, e infine inesorabilmente cadeva dalla parte della mia gamba immobilizzata- si dilatarono smisuratamente per farmi meglio gustare l’amaro sapore della mia inutilità di fronte a un fatto futuro sì, ma già segnato dal Fato: la mia ineluttabile caduta. E finalmente il pesante veicolo mi cadeva sulla gamba, fratturandola.
Quaranta giorni di ospedale, e poi i lunghi mesi di allenamento per ridare tono ai muscoli indeboliti, per togliere dalla mia andatura il traballante rollio lasciatomi in eredità dal lungo periodo di ingessatura.
Ora ho quasi cinquant’anni. Ho la pancetta, e fra i capelli radi si intravede il luccicare rosa del cuoio “capelluto”- si fa per dire.
Ma ancora oggi la velocità è uno degli ingredienti fondamentali della mia vita.
Certo, non è a rigore una necessità; molti dei miei colleghi viaggiano adagio adagio, programmandosi i giri mensili in modo da percorrere ogni giorno non più di cento o duecento chilometri.
Io invece trovo gusto ad allungare i percorsi giornalieri. A tutta la velocità, con tutti i sensi tesi a dominare e prevenire ogni minimo intoppo, percorro in lungo e in largo l’intero paese con la mia auto. Sono il re delle autostrade.
La mia vettura- una Ferrari del 1997, un meraviglioso luccicante pezzo di antiquariato- è mantenuta in perfetta efficienza delle mie amorevoli cure domenicali. Non un solo automatismo; non un solo computer fra i suoi strumenti di controllo. Completamente manuale, è essa sola che consente la perfetta simbiosi fra uomo e macchina.
Oggi, c’è chi preferisce affidarsi alla teleguida. Ci si siede allora sul sedile posteriore, lasciando al pilota automatico, montato in serie nelle vetture della nuova generazione, il compito di portarti nel tempo programmato da un casello all’altro.
I mastodontici autotreni telecomandati che a una velocità di oltre duecento chilometri all’ora sfrecciano silenziosi sulle corsie di sorpasso, appaiono a volte incombenti e inesorabili; e la loro lineare, razionale, automatica traiettoria, pare essere compatibile solo con traiettorie altrettanto automatiche ed altrettanto computerizzate.
Ma io, preferisco affidare la mia vita alle mie personali capacità. Alle mie imperfette e deboli membra, al mio cervello umano e limitato. Ma anche alla mia fantasia, alla mia inventiva.
Mi piace vedere il posteriore degli autotreni. Mi piace raggiungerli. Mi piace sorpassarli, e non essere sorpassato.
Chi va piano, viene raggiunto da dietro; non può controllarli. Chi va piano ha un ruolo passivo: non li domina, ma ne è dominato.
Ogni tanto, dopo avere sorpassato uno, rallento per meglio osservarlo.
Ne vedo uno nello specchietto retrovisore. Veloce, silenzioso, impersonale ed anonimo. Freddo. E’ alto e grandissimo. La sua lucida faccia anteriore, priva di finestrini e senza abitacolo, è cieca; vede solo attraverso il radar. La carenatura concava arriva in basso fino a sfiorare l’asfalto, come il frontale di un grande bulldozer. Le punte laterali avanzate, quasi volesse abbracciarti.
Accelera, lascialo indietro!
Un leggero scarto con la mia Ferrari. Le improvvisazioni lo disorientano. Via, alla caccia di un altro con cui giocare.
La vita del viaggiatore è dura e pericolosa. Solo il gusto della velocità e del gioco possono renderla piacevole e a volte esaltante.
I miei colleghi più posati e pigri non resistono a lungo. Si stancano e si eclissano. Spariscono dalla mia vita. Si licenziano senza un saluto.
Ho visto una lenta automobile nell’atto di venire raggiunta e investita da un autotreno. Il frontale del mostro come un lucido badile che scivola sull’autostrada veloce ha raccolto la vettura. Si è aperto, e l’ha succhiata dentro di sé: così come una nave traghetto, aprendo le mascelle della sua bocca di prua, inghiotte le automobili nel suo ventre.
E’ così che finiscono i miei colleghi quando si “licenziano”?
Gli autotreni non vogliono ostacoli sul loro cammino. Ma anziché spazzare ciò che incontrano, lo inghiottono. Forse per fare sparire le prove del loro omicidio. O forse per recuperare i resti del loro misfatto, per poterli riusare e riciclare.
Un tempo la nostra civiltà, grande consumatrice e grande produttrice di rifiuti, aveva il problema di smaltire le sue immondizie. Ma poi ha imparato a valorizzarle e usarle.
La civiltà del processo integrato, del ciclo chiuso.
Consuma quanto vuoi, purché i resti non vadano perduti e possano costituire la materia prima di un nuovo ciclo.
E dunque, schiaccia i tuoi simili se vuoi. Ma non buttare gli avanzi.
Raccoglili e riusali.
Fai che essi servano per dare nuovo alimento al ciclo produttivo e al ciclo vitale.
Fai che dai resti delle auto nascano nuove auto, che dai resti della vita nascano nuove vite.
Ma tu accelera e vai. Raggiungi e sorpassa. Non farti raggiungere mai.
In vacanza mi rilasso, allento il cervello e i muscoli fino al punto di vegetare e basta.
Come un girasole, sempre rivolto a raccogliere i raggi del sole là dove essi sono più intensi e più caldi.
Nella mia piccola barca a vela, che con l’albero nudo dondola lentamente in mezzo al mare, steso sul ponte mi crogiolo in dormiveglia come una lucertola. Solo.
Rumori rassicuranti e pigri.
Lo sciabordio dell’acqua sullo scafo. Una refola di vento fa sventolare la bandierina. Il lontano ronzio di un aeroplano; un cupo ronzio.
Il ronzio aumenta di intensità. Il pilota si diverte, vola basso.
Apro pigramente un occhio.
Vedo l’enorme prua che avanza. Liscia, veloce, inesorabile.
Una enorme petroliera, l’autotreno dei mari.
Anch’essa sola, senza uomini a bordo, solca i mari sicura incurante degli insetti che incontra sulla sua rotta.
Avvia il motore, alza la vela!
I tuoi movimenti sono lenti, la tua piccola barca è ferma, piantata come un ferro da stiro. Dov’è la rimbombante Ferrari?
La prua della nave ingigantisce, è sopra di me.
Apre la sua enorme bocca e mi inghiotte.
Povero piccolo pesciolino fuori del suo elemento, lontano dalla sua autostrada.
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