
già pubblicato su IL MATTINO, Futuro e presente. Venerdì 29 ottobre 1993
Ciò che sta a destra e ciò che sta a sinistra è, evidentemente, una questione di punti di vista: quello che per me è il lato destro di una strada, diviene il lato sinistro per chi percorre quella stessa strada in senso opposto. Non vi è da meravigliarsi, dunque, che anche in politica possa ingenerarsi, talvolta, qualche ambiguità di interpretazione.
Specie se la realtà politica e sociale cui ci riferiamo non ci è nota nella sua attualità e nella sua storia, dire che un dato movimento è di destra o di sinistra non basta a definirne la collocazione in rapporto – ad esempio, alla nostra personale connotazione politica. A titolo di esempio, mi risulta oscuro il motivo per cui Gorbaciov viene definito “di destra” rispetto a Eltsin.
Ciò è tanto più vero quanto più la destra e la sinistra divengono “estreme”: come noto, infatti, gli estremi si toccano. Per questo, preferisco usare – finché posso – riferimenti meno relativi. “Cattolico”, “Marxista”, “Popolare” sono, ad esempio, aggettivazioni più saldamente ancorate a riferimenti culturali o sociali ben definiti e chiari. Talvolta abbiamo a che fare con attributi o sostantivi la cui interpretazione è più incerta. Modernità, ad esempio, non ha alcuna ambiguità se con moderno si intende ciò che è storicamente più recente; ma qualificarsi “progressista” (e quindi anche sostenere che qualcuno è reazionario” e che perciò si oppone al progresso) non significa molto se non si definisce cosa debba intendersi, per l’appunto, con “progresso”.
Se assumiamo che il trascorrere del tempo produca sempre, mediamente, un aumento di qualità (di qualità della vita, di qualità dell’ambiente, e così via) allora “progresso” sarebbe semplicemente ciò che accompagna il trascorrere naturale della storia; e ci sarebbe sostanziale identificazione fra progresso e modernità.
Ma troppi sono gli esempi – anche recenti – di imbarbarimento (che talvolta si diffondono nell’intera civiltà umana, e coprono periodi storici di durata non trascurabile) perché possiamo accontentarci di questa semplicistica identificazione.
Se, per dare una definizione più autentica e oggettiva di progresso proviamo a rivolgerci alla scienza, troviamo che – per la scienza appunto – la qualità di qualunque sistema complesso (sia esso un sistema sociale, un sistema ecologico, un sistema termodinamico) è misurata dalla sua organizzazione, cioè dall’ordine strutturale e comportamentale che lo caratterizza; ma troviamo nel contempo che l’ordine complessivo dell’universo, per legge generale di natura, va necessariamente diminuendo col passare del tempo.
La storia dell’universo, preso nel suo insieme, è allora complessivamente regressiva; e ciò pare contrario all’anelito naturale dell’uomo che vuole progresso, e che alla storia chiede progresso.
Una risposta in positivo, dataci anch’essa dalla scienza, ci viene tuttavia dalla considerazione che quanto più un sistema è complesso, tanto maggiore è la quantità di informazione che esso potenzialmente contiene; e tanto maggiore è dunque l’ordine che si accompagna all’acquisizione conoscitiva di quel sistema.
“Progresso” si identifica allora con “conoscenza”, e la storia diviene progressiva quanto più essa porta ad un aumento continuo del complesso delle conoscenze (che appartengono all’umanità nel suo insieme, ad un particolare popolo o una particolare comunità, o un particolare individuo).
Allora, anche se modernità significa oggi, almeno per i popoli industrializzati, disponibilità crescente di risorse e di beni ciò non comporta automaticamente progresso, né automatico accrescimento qualitativo della civiltà e del benessere; si ha progresso solo quando a tali disponibilità si accompagna un pieno possesso conoscitivo – piena coscienza e dominio – da parte dell’uomo; e, anche, quella giustizia distributiva senza della quale non v’è quell’ordine che la stessa definizione di progresso pretende.
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