Fuga verso il Sud

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Settembre 1982

Dall’alto, il tappeto verde della foresta appare segnato da una irregolare reti di tracce più grigie. Sono gli avvallamenti che segnano ancora il percorso degli antichi canali. Il grande tempio di pietra scura, al centro delle rovine della città, sembra il nero ragno in agguato nella sua ragnatela. Il cielo non è azzurro, ma blu scuro; e la luce è così intensa che non la si può sopportare a occhio nudo.

In fondo, il mare color dell’acciaio, increspato da lenti brividi, sfuma verso il viola là dove le onde si frangono pigre sulla bianca larga striscia di spiaggia.

Il silenzio profondo non è percorso nemmeno dalle strida degli uccelli che non giungono fin quassù dalla foresta.

E l’unico turbamento che la tecnologia dell’uomo porta a questa pace è il leggero fruscio dell’ala dell’aliante che vedo vibrare al mio fianco.

Un tempo, nei decenni precedenti la Grande Pacificazione, i popoli dell’Emisfero Sud – gli Australi – avevano duramente lottato, conducendo impari guerre e cruente rivoluzioni, per impadronirsi delle tecnologie sviluppate dai Boreali nei paesi industrializzati dell’Emisfero Nord. La fame e la miseria del Sud erano conseguenze non tanto di un’incapacità dei paesi Australi a valorizzare ed utilizzare le proprie risorse, quanto della sistematica opera di rapina che di tali risorse perpetravano i popoli boreali usando la propria potenza economica e militare. Ed il Sud lottava e soffriva inseguendo la chimera di scalare con le unghie e coi denti la montagna del progresso tecnologico, per poi difendere, in un rapporto di forze portato su un piede di equilibrio, le proprie risorse e i propri confini.

Ma i colossi industriali del Nord, mettendo per qualche tempo da parte la tradizionale spaccatura ideologica politica e militare che aveva per decenni diviso e contrapposto l’Est e l’Ovest, si erano accordati per condurre con le armi la definitiva Grande Pacificazione, mettendo così a tacere per sempre le turbolenze degli Australi.

La Pacificazione ha risolto completamente il problema della fame nel Sud, avendo ridotto la popolazione complessiva di tutto l’emisfero a pochi milioni di persone. Gli Australi, raggruppati in tribù, vivono ora ordinatamente nelle loro riserve recintate dalle invisibili ma invalicabili barriere elettromagnetiche, steccati che non turbano l’aspetto selvaggio e naturale di questo emisfero trasformato nel giardino del mondo.

Gli indigeni validi, istruiti e guidati da reparti Boreali che vengono qua inviati per il servizio civile di leva, escono dalle riserve solo per occuparsi di mantenere in ordine il grande giardino; e per curare il sapiente restauro e la conservazione delle vestigia del passato che danno quella magica pennellata di mistero al prorompente rigoglio della natura.

Gli inquinamenti del nord sono rigorosamente banditi da questo emisfero, e grazie anche alla particolare configurazione delle correnti e dei venti geotropici, non riescono a passare la linea immaginaria dell’equatore. Qua i motori sono solo motori elettrici, alimentati da batterie che vengono poi ricaricate nelle grandi centrali del Nord. L’illuminazione è fornita da silenziose e pulite batterie solari. I mari sono solcati solo da barche a vela; e i cieli; oltre che dai grandi silenziosi dirigibili di linea, sono percorsi solo dagli immobili bianchi uccelli, dai fruscianti alianti da cui possiamo godere l’emozione di questi sterminanti paesaggi.

E’ questo il paradiso che noi, uomini del nord, con amorevole cura preserviamo per poterci qui ristorare, a turno per un mese solo all’anno, dalle intossicazioni e dalle fatiche della meccanica vita nel grigio nord. Non più di un mese, un mese lungamente sospirato per tutto l’anno.

I primi giorni di vacanza sono piuttosto faticosi, perché bisogna riabituarsi a prendere decisioni senza l’aiuto del computer. Ma in fondo, non sono decisioni determinanti: che cosa visitare oggi, se andare in mare o in cielo, se avventurarsi nella foresta per un safari fotografico. In linea di massima, qualunque decisione tu prenda è sempre una decisione buona. E una volta che tu riesca a far penetrare anche a livello inconscio questa tua conclusione razionale, una volta dunque che tu abbia maturato la consapevolezza che la paura di sbagliare – che così gravi conseguenze porterebbe al Nord – non ha qua ragione di essere, diviene addirittura piacevole decidere in maniera improvvisata ed avventata, senza ricorrere alla macchina pensante che pondera e confronta, fino alle sue più lontane conseguenze, ogni suo gesto.

Ora il mio mese nel Sud sta per finire. E so che nei prossimi giorni dovrò duramente faticare per riabituarmi, non già alla compagnia dell’Amico Computer, quanto all’impegno delle decisioni che esso mi aiuterà a prendere.

Il dirigibile mi ha portato fino a Colombo, nell’isola di Ceylon. Le mie vacanze sono finite lì. A Colombo sono stato inserito nel programma di viaggio di ritorno. Fra otto minuti e trenta secondi atterreremo a Parigi. Da quando non sono più gli uomini a pilotare gli aerei, i programmi di viaggio si svolgono con precisione cronometrica. Mentre l’aero rallenta – stiamo viaggiando ora, mi pare, a non più di mille chilometri all’ora – vedo già apparire la grande campana trasparente che contiene i multicolori puntini luminosi che caratterizzano, nella notte, la pulsante vita della metropoli; la grande campana grazie alla quale Parigi, come tutte le grandi città del Nord, viene artificialmente condizionata e climatizzata. Fra non più di mezz’ora sarò a casa.

Ho ripreso il lavoro, e dunque oggi non posso muovermi di casa. Penso che leggerò un buon libro.

Il terminale del computer – il monitor televisivo e la consolle colloquiale – mi lascerà tranquillo fino a che tutto, in fabbrica, procede normalmente. Solo quando si presenta qualche problema – un problema abbastanza inusuale e complesso perché il computer non sappia risolverlo da solo – il terminale mi chiama e chiede il mio aiuto. Aiuto che mai gli darei senza poter ricorrere, a mia volta, a tutti i suoi consigli.

Ogni tanto, il terminale manda un allarme fasullo; è un semplice controllo, per verificare che io mi trovi al pezzo, e non mi sia addormentato o non sia uscito per i fatti miei. Il mio computer controlla un intero reparto della fabbrica introducendo, quando è il caso, migliorie tecniche nei prodotti; a volte veri e propri cambiamenti di indirizzo della strategia produttiva.

A volte mi chiedo: chi prende in realtà queste decisioni?

Evidentemente, il mio computer è subordinato al grande computer della direzione; il quale, a sua volta, oltre a ricevere una serie di informazioni e di condizionamenti da varie fonti – in particolare, è collegato coi computers del reparto “valutazioni strategiche” e del reparto “progettazioni e innovazioni tecnologiche” -, riceve anche direttive strategiche dal computer del Ministero dell’industria e della Difesa; e questo per conto suo non può agire senza consultare il computer della Presidenza del Consiglio.

Ora non v’è dubbio che la formalizzazione delle decisioni, e la loro traduzione in disposizioni operative, viene definita da questo sistema piramidale di computers, che sono fra di loro collegati e fra di loro si aiutano. Non v’è dubbio altresì che tutte le decisioni derivano da un rigoroso processo di ottimizzazione: ottimizzazione della qualità del prodotto, minimizzazione dei costi, ottimizzazione dell’uso che dei prodotti farà la macchina produttiva nazionale e occidentale, ecc. ecc.

Ma, è ben noto, un computer, a dispetto della sua enorme capacità di elaborazione e a dispetto dell’appellativo di “macchina pensante” che viene ad esso attribuito nel linguaggio comune, in realtà non pensa; pensa per lui, semmai, chi elabora i suoi programmi.

Allora la mia domanda è: ci sarà da qualche parte qualcuno – qualche uomo, qualche essere veramente pensante – che abbia una chiara conoscenza del quadro complessivo degli obiettivi verso cui mira il grande processo di ottimizzazione gestito dai computers? Perché, è evidente, dire “ottimizzare” non ha alcun senso in sé se non si definisce “verso quali fini” si intende ottimizzare.

Ora non è per caso che gli obiettivi vengono imposti e definiti a bocconi e brandelli, tramite scoordinati contributi provenienti un po’ da tutti i programmatori che lavorano in giro per l’emisfero ciascuno senza sapere ciò che pensa e decide l’altro? Non sarà dunque che tutta la enorme macchina produttiva lavora secondo uno schema che ottimizza tutto il sistema verso un obiettivo strategico che, nascendo da un processo non unificato e incontrollato, altrimenti non può essere definito se non casuale?

O se vogliamo, dando per certo che ognuno di noi piccole monadi non controlla né conosce l’eventuale disegno politico di questa società, possiamo almeno sperare che da qualche parte qualcuno vada definendo e controllando tale disegno? Ovvero stiamo andando, per il più razionale dei percorsi, verso un fine stabilito dai computers con una sorta di giro di roulette?

Oggi è domenica, ma io me ne resto tranquillo in casa mia. Non mi piacciono le convulse solite code per la gita fuori città.

Ci sono anzitutto motivi di salute. Fuori dalla campana di condizionamento artificiale che protegge la città, il clima fa i soliti scherzi; spesso piove e fra freddo.

Il mio fisico, abituato alla uniforme condizione di confortevolezza della città, rischia ogni volta di prendere una brutta batosta, quando esco in campagna; quando va bene, sono sternuti, raffreddore e sinusite.

Quanti amano passare il fine settimana in campagna, si allenano sistematicamente ogni giorno con faticose galoppate mattutine fuori città; o per lo meno, si attrezzano in casa- per allenare il fisico- una “stanza climatica” in cui vengono artificialmente riprodotte le capricciose condizioni proprie del clima naturale.

Ma il secondo determinante motivo della mia avversione per le gite domenicali è che, in autostrada, non riesco a sopportare le prevaricazioni imposte dai Culturali. Le autostrade, di domenica, sono talmente affollate che in un verso e nell’altro le auto, procedendo ad andatura uniforme e tutt’altro che veloce, ricoprono il manto stradale in misura compatta; cosicché viste dall’alto, le strade sembrano cinture di pelle di coccodrillo che scorrono lentamente.

Sui tetti delle auto si installano i Culturali, che a famiglie intere, a gruppi, a frotte, prendono a bivaccare facendosi trasportare a ufo, da parassiti quali sono; irrispettosi di quanti, nelle proprie auto, sudano e faticano il loro viaggio, e consapevoli che il flusso uniforme del traffico impedisce ad ogni automobilista di fermarsi per cacciarli, come meriterebbero, a bastonate.

Alle sue origini, il movimento dei Culturali aveva una sua precisa connotazione sociale. Il mondo della cultura ha sempre avuto, storicamente, un suo determinato ruolo non solo nella progettazione dei grandi disegni politici; ma ha anche trovato gli spazi per condizionare o addirittura determinare le fasi operative, sia quelle più dirompenti, come le rivoluzioni e le guerre, sia quelle di normale gestione.

Il terreno in cui germogliavano e crescevano i futuri uomini politici era tuttavia principalmente quello delle discipline umanistiche; e spettava soprattutto agli umanisti pronunciarsi e pontificare sulle grandi scelte politiche di fondo.

Gli scienziati e i tecnici ( il mondo, come si diceva, “delle Competenze” come contrapposto a quello umanistico “della Cultura” svolgevano di norma in politica un ruolo subalterno e di servizio: un ruolo finalizzato a definire problemi di dettaglio, a levigare pazientemente le tessere di un mosaico che solo dalla Cultura veniva disegnato nel suo insieme.

Con lo sviluppo dell’informatica, però, i tecnici cominciarono a sviluppare imponenti strumenti di calcolo finalizzati alla ottimizzazione ed alla pianificazione delle grandi operazioni e dei grandi interventi di assetto del territorio, della economica, della organizzazione sociale. Il responso del loro oracolo maturava attraverso un rito misterico- il colloquio col Dio Computer- che solo loro riuscivano ad officiare; e si conquistarono così lentamente ma irreversibilmente il diritto di avere nei fatti l’ultima parola sulle grandi scelte politiche; poiché essi solo erano in grado di affermare con la dovuta sicurezza quali programmi operativi fossero in grado di portare al successo, o al fallimento, una qualunque scelta politica di fondo.

Lentamente, dunque, il progetto politico venne ad assumere un ruolo subordinato nei riguardi del progetto esecutivo e della operatività. La stessa Politica come Scienza del Sociale si trasformò in una ancella al servizio dei teoremi della Buona Amministrazione. E la Cultura, che non capiva e non sapeva maneggiare gli strumenti dell’informatica- e che dunque solo attraverso qualitativi condizionamenti alla Politica poté influire sulla tecnologica evoluzione dell’umanità- si sentì presto emarginata, trascurata e impotente.

E fu così che i Culturali si ritirarono dalla mischia; fu così che presero a teorizzare la predominanza della Morale, rispetto alla Politica, dell’Individuale rispetto al Sociale. Fu così che rivendicarono il loro diritto a vivere al di fuori della programmazione tecnologica della società, trovando i loro spazi di libertà di pensiero e di azione nelle più nascoste sacche di benessere di cui una società così bene organizzata ed efficiente dal punto di vista della produttività abbondava; e teorizzando il piacere di sviluppare le loro conoscenze e la loro cultura prosperando laddove i computers, e la programmazione dei tecnologi, nemmeno si accorgevano di loro.

Essi diedero così l’avvio non solo alla loro inarrestabile involuzione verso il parassitismo più sfacciato; ma lasciarono in più completa via libera a un acritico sviluppo di una macchina sociale tecnologia chiusa su sé stessa, e tesa ad ottimizzare i suoi processi e la sua evoluzione verso sconosciuti, casuali traguardi.

Ma forse, questi non sono altro che pensieri di un Capo Reparto depresso, nella tristezza di una domenica solitaria in una casa senza luce e senza scintille. Forse, i Culturali non sono altro che una minoranza di barboni quale sempre è esistita in una Società ricca.

Forse la Cultura c’è ancora, e sta lavorando, inosservata ma sicura, alla costruzione di un futuro luminoso per tutto l’emisfero Boreale.

Il computer mi ha comunicato un cambiamento di indirizzo nelle scelte produttive. Verranno sfornate ogni mese, d’ora in poi, venticinque scatole di puntamento magnetico; scatole che possono consentire a un missile teleguidato di raggiungere un bersaglio sotterraneo, distante 12.000 chilometri, con la precisione di pochi metri.

La nostra fabbrica produce, da sempre, sistemi elettronici di corredo agli armamenti; ed io lavoro per la fabbrica da oltre vent’anni. Abbastanza per costruirmi una lunga esperienza; abbastanza per imparare a leggere, delle caratteristiche dei dispositivi che ci viene chiesto di produrre, quali sono gli obiettivi strategici cui mira la politica degli armamenti del Blocco Occidentale.

Nei primi anni del mio lavoro producevamo, con tecniche rudimentali rispetto a quelle attuali, sistemi per testate termonucleari sempre più potenti. Ciò rispondeva alle esigenze di un quadro strategico che mirava a garantire la pace mediante l’equilibrio, fra Est ed Ovest, di un potenziale di armi di rappresaglia capace di provocare la completa reciproca distruzione. Ognuno dei due blocchi si proteggeva contro la tentazione che l’altro poteva avere di attaccarlo, dimostrando di essere capace di reagire, in tal caso, con la completa distruzione di tutte le città e di tutta la popolazione dell’incauto aggressore.

Più tardi, abbiamo cominciato a costruire sistemi di controllo per armi tattiche- piccole granate nucleari, mine, bombe al neutrone, ecc. L’Occidente si stava infatti preparando per avere, come diceva lo slogan, “una risposta nucleare per qualunque esigenza militare si presentasse in qualunque parte del mondo”.

Il gioiello di questo ventaglio di armi tattiche era la bomba al neutrone, o bomba a “radiazione intensificata”, o bomba N; una bomba studiata per uccidere gli uomini e lasciare intatte le cose. E’ stato questo, nel seguito, lo strumento che l’Emisfero Boreale ha utilizzato per condurre la Grande Pacificazione dei Popoli Australi.

Il nuovo indirizzo che è stato ora dato alla produzione può avere un solo significato: cioè che il Blocco Occidentale si sta preparando ad allestire la guerra termonucleare per la distruzione preventiva del Blocco Orientale. Va infatti notato che una precisione così spinta non ha alcun senso nel quadro di un armamento nucleare leggero, né in quello di un armamento pesante destinato a funzioni di rappresaglia, cioè difensive: infatti per andare a distruggere una grande città con un ordigno che distrugge tutto ciò che trova nel raggio di molte decine di chilometri, bastano missili con una precisione di alcuni chilometri. Una precisione di pochi metri ha senso solo qualora si abbia in mente di andare a stanare, con azione preventiva, i missili sotterranei e sottomarini del nemico.

E’ stata dunque avviata una operazione mirante a distruggere completamente il Blocco Orientale, togliendo contemporaneamente dal capo del Blocco Occidentale la spada di Damocle del Potenziale di ritorsione avverso.

Ora è evidente che in tempi come i nostri- tempi caratterizzati da uno straordinario sviluppo di tutte le tecnologie connesse con la scienza dell’informazione- il Blocco Orientale è certamente al corrente delle nostre scelte. Nonostante il continuo rinnovamento dei cifrari e dei codici segreti, è ormai divenuta sistematica l’azione di furto di informazioni che il sistema di computers dell’un blocco esercita entro la memoria dei computers dell’altro blocco.

E dunque, anche se non so se siano stati prima gli Occidentali o prima gli Orientali a dare il via alla svolta nella strategia militare, di una cosa sono certo: sono certo cioè che se noi da un lato ci affanniamo a porci nelle condizioni di poter distruggere loro prima che essi ci distruggano, loro, per contro, si affannano per arrivare prima di noi, ed essere così capaci di distruggerci prima che noi distruggiamo loro.

Temevo e sapevo che prima o poi sarebbe successo. Si è innescata ormai una spirale senza via di uscita. Non possiamo fermarci, perché altrimenti saremmo votati alla distruzione; così come non possono fermarsi loro.

Più che di una corsa della morte, si tratta di una roulette russa.

Chi arriverà per primo?

Probabilità cinquanta per cento per noi come per loro di morire nella esplosione generale di tutta la nostra civiltà.

O sarà forse l’olocausto di tutta l’umanità, sotto il funesto mantello del mortale fall-out radioattivo?

Quanto tempo ci resta? Qualche mese, un anno?

Ho deciso, tenterò l’impossibile impresa. Cercherò di fuggire nell’Emisfero Australe. E’ quasi certo sarò catturato durante il viaggio; un viaggio che altrimenti non potrò fare se non con mezzi di fortuna.

Ma se riuscirò a raggiungere l’emisfero Australe, se riuscirò a infiltrarmi in una delle riserve in cui vegetano serene le loro tribù, potrò vivere nella spensieratezza, cullato nel mio ozio dai dolci rumori di una incontaminata natura, gli ultimi mesi della mia esistenza.

Non sono riuscito ancora a spingermi oltre Rabat, e già li sento sulle mie tracce.

Mi prenderanno e morirò nel triste isolamento che mi sarà imposto dalla loro condanna.

E’ stato il mio amico computer a tradirmi. Avevo portato con me la mia radio ricetrasmittente, e con essa mi mantenevo in contatto col terminale della mia macchina pensante; non potevo rinunciare ai suoi consigli durante la più rischiosa impresa della mia vita.

Ma mi ha tradito. Ha comunicato le mie coordinante al grande sistema di computers che, come una Piovra, copre l’intero Emisfero Boreale.

I miei inseguitori ora sanno dove sono, Mi prenderanno fra breve; mi condanneranno, e morirò.

La peggiore delle beffe è che ora la Piovra elettronica dell’Ovest si è accordata con la Piovra dell’est. Così mi ha detto il mio terminale. La produzione è stata indirizzata verso innocui gingilli di pace. L’umanità vivrà. Ma io, codardo, con la mia fuga mi sono condannato. Morirò senza avere nemmeno rivisto il luminoso Sud.

 

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